Donne e malattie mentali: un'indagine

Adriana Giannini


Che cosa pensano le donne delle patologie psichiche quando hanno la fortuna di non sperimentarle sulla propria persona o attraverso i famigliari? Quali sono i vissuti e le difficoltà di quella parte della popolazione femminile che vive il disagio psichico nella  sua quotidianità subendolo come paziente o come parente di un paziente? Sono domande importanti alle quali O.N.Da, l'Osservatorio nazionale sulla salute della donna presieduto da Francesca Merzagora, che da alcuni anni promuove ricerche, convegni e campagne di comunicazione rivolti a raggiungere l'equità in campo sanitario, ha cercato di dare una risposta attraverso una recente indagine affidata a Elma Research. Presentata in occasione delle due giornate che si sono svolte ai primi di  novembre alla Triennale di Milano per  far conoscere in particolare la schizofrenia (non per niente l'evento si intitolava “Menti in movimento”), l'indagine si è sviluppata in due fasi. Una prima fase, quantitativa, ha coinvolto 600 donne tra i 25 e i 50 anni alle quali è stato somministrato via web un questionario avente lo scopo di evidenziare le loro conoscenze e le loro opinioni sulle malattie mentali in generale. La seconda fase, qualitativa,  si è svolta attraverso interviste a donne con diagnosi di patologia psichica – schizofrenia o disturbo bipolare – e a gruppi di caregiver (è questo il termine inglese con cui anche da noi è chiamato chi si occupa di persone alle quali è stata diagnosticata una malattia mentale). 

Vediamo brevemente che cosa ha rivelato l'indagine di O.N.Da. Innanzitutto, più della metà ossia il 54 per cento delle donne contattate via web ha dichiarato di avere esperienza delle malattie psichiche  o attraverso un familiare (nel 33% dei casi) o direttamente (21% dei casi). In altre parole, oltre una su cinque ha riferito di aver sofferto di uno o più disturbi psichici tra i quali i più frequenti sono la depressione maggiore (45% dei casi), le fobie o manie (41% ), la nevrosi (26% ), il disturbo ossessivo compulsivo (21% ),  l'abuso di sostanze (12%) e via calando fino ad arrivare a un 4% che ha parlato di schizofrenia. Eppure, benché le percentuali dimostrino quanto sono diffusi questi disturbi, le donne lamentano di non esserne adeguatamente informate e soprattutto che le informazioni di cui dispongono non vengono da chi le ha in cura, ma da web, radio, televisione o stampa o dall'esperienza di parenti o amici. Questo fa sì che queste malattie, da un lato, siano percepite come disturbi seri, con cause complesse che necessitano di terapie psicologiche o psichiatriche (per 4 su 5 delle donne contattate), ludico-ricreative (per il 56 %), farmacologiche (per il 54%) e, dall'altro, non vi sia molto ottimismo sulla risoluzione totale delle patologie psichiche. Secondo tre intervistate su quattro al massimo si può arrivare a una guarigione parziale o al controllo dei sintomi. Inoltre, vi è una certa diffidenza verso le terapie farmacologiche per il timore che creino dipendenza o abbiano pesanti effetti collaterali.

Fanno particolarmente riflettere le osservazioni relative al modo di sentire e di vivere queste patologie. Alla sofferenza e al dolore generati dalla malattia stessa si accompagnano due preoccupanti fenomeni: l'emarginazione da parte della società che preferisce allontanare o addirittura ignorare il problema e l'auto-isolamento del malato che non riesce a comunicare il suo disagio o addirittura se ne vergogna. Eppure tre donne su cinque parlerebbero volentieri, oltre che con il proprio medico, con chi potrebbe aiutarle o star loro vicino e soprattutto con il partner, un genitore o le amiche intime, ma sono imbarazzate a farlo perché temono di venire discriminate.

La fase qualitativa dell'inchiesta ha sottolineato ancora più efficacemente questa sensazione di disagio legata allo stigma sociale. Chi riceve una diagnosi di malattia psichica – purtroppo, secondo le intervistate, non sempre formulata dallo specialista in modo chiaro ed esaustivo – tende a perdere l'autostima, si sente etichettata come una perdente. Da un lato, ha la sensazione, spesso fondata, che partner, amici o colleghi si allontanino, mentre dall'altro tende a dipendere a livello pratico, psicologico e spesso anche economico da chi si è assunto il ruolo di caregiver. A proposito di quest'ultimo c'è da dire che spesso si tratta di una parente prossima, di solito una madre o una sorella, più raramente una moglie, la cui vita, come hanno dimostrato le interviste, viene condizionata in maniera totale dalla gestione di un malato psichico. Anche perché le stesse caregiver risentono dello stigma sociale che i malati subiscono: una madre di due figli, uno sano e uno affetto da una malattia mentale, ha raccontato che parenti ed amici hanno l'abitudine di chiederle notizie solo del figlio sano, ignorando, come se non esistesse, il figlio malato e rivelando un'imbarazzante volontà di allontanare il problema.

Fortunatamente non tutta la società reagisce in questo modo: caregiver e pazienti sono concordi nell'affermare di aver trovato nei centri diurni e nelle case famiglia un utilissimo strumento di riabilitazione personale, sociale ed emotiva, sono luoghi che “ti danno la possibilità di rimetterti in gioco e di non farti sentire solo”. Nelle due giornate della  Triennale erano presenti, accanto a noti specialisti che si occupano di patologie mentali, le responsabili di due associazioni di volontariato impegnate nel settore delle fragilità mentali.

Quella con la più lunga esperienza è la AITSaM (Associazione italiana tutela salute mentale). Nata nel Veneto e precisamente a Oderzo (TV) nel 1985 come coordinamento di associazioni di famigliari di sofferenti di disturbi psichici, dal 1994  si è estesa a livello nazionale con 25 sezioni diffuse principalmente nel Veneto, ma anche nel Friuli Venezia Giulia, in Emilia Romagna e in Liguria. Partendo dal concetto che la malattia mentale è una malattia “normale” che può colpire chiunque e dalla quale di può guarire l'AITSaM attua campagne informative per far cambiare l'atteggiamento della società e renderla più responsabile, offre consulenza ai malati e ai famigliari sui servizi sanitari disponibili, sulla normativa, gestisce centri sociali di accoglienza per le persone con disagio e i loro famigliari, una cooperativa che ha già inserito nel lavoro 160 persone e  sta attuando un progetto di residenzialità assistita.

Di più recente istituzione è Progetto Itaca, un'associazione di volontari nata a Milano nel 1999 e poi sviluppatasi anch'essa a livello nazionale con sedi a Genova, Asti, Parma, Firenze, Roma, Napoli e Palermo. Progetto Itaca è parte di un importante movimento mondiale che offre una visione innovativa al disagio psichico, a chi ne è colpito e all'approccio a questo problema. L'associazione si occupa soprattutto di prevenzione e riabilitazione e lo fa attraverso vari strumenti tra i quali, solo per citarne qualcuno, un centro di ascolto che ogni anno riceve più di 13 000 chiamate  e a cui si accede tramite numero verde gratuito (800274274), centinaia di volontari attivi e preparati per sostenere i pazienti e le loro famiglie durante la cura, la tutela dei diritti delle persone e l'avviamento al lavoro dei soci in collaborazione con svariate aziende che si sono dichiarate disponibili ad accoglierli.

Per saperne di più:
www.ondaosservatorio.it
www.aitsam.it
www.progettoitaca.org

 

 

20-11-2013